domenica 5 aprile 2020

Pandemia, biosfera e necessità di un nuovo umanesimo

In questi giorni, complice anche il bel tempo e la primavera conclamata, cresce nelle persone la voglia di riappropriarsi della quotidianità perduta, di rioccupare le strade e riprendere quella vita sociale sospesa a causa della pandemia in corso. Ieri qui a Roma, ma mi sembra di capire anche altrove, si è assistito ad un sostanziale e liberatorio rompete le righe spontaneo e collettivo, seppure (per fortuna) in piccola scala. Sono tornati ad affollarsi i mercati rionali e le strade del quartiere, soprattutto nelle ore centrali.
Purtroppo è ancora presto per lasciarsi andare alla comprensibile voglia di recuperare il ritmo autentico della vita che, per i più è tale soltanto se inserito nel flusso dinamico dei rapporti sociali e collettivi. Per quanto possa essere complicato il rispetto di regole restrittive che sembrano protrarsi ad oltranza, ad oggi non esiste altro modo per fronteggiare il pericolo di un virus che ha già mostrato, nella drammaticità dei suoi numeri, tutta la sua contagiosità e letalità. Fin quando non vi saranno vaccini o cure efficaci, non resta, per affrontare il problema, altro modo che il distanziamento sociale con il relativo blocco delle attività quotidiane. Se il virus fosse lasciato libero di fare il suo corso tra la popolazione, senza ostacolo alcuno, andremmo rapidamente verso le centinaia di migliaia di morti con grave rischio della tenuta stessa non soltanto del sistema sanitario, ma della stessa società civile e della democrazia. Purtroppo ad oggi non vi è alternativa possibile a questi scenari e alle misure adottate per scongiurarli. Il percorso logico che ha portato a dover attuare le misure attuali, non è smentibile dalla possibile adozione di scenari alternativi. Chi nel resto del mondo ha provato inizialmente a paventare la possibilità di una strategia diversa, ha dovuto ripiegare rapidamente, e sotto l'influsso degli stessi implacabili numeri, sulle medesime soluzioni che sono state adottate qui (e, in misura molto più stringente, in Cina). I risultati del resto si iniziano anche a vedere. I numeri dei nuovi contagi continuano a crescere ma in maniera molto più lenta rispetto all'inizio. La curva della crescita dei nuovi contagiati ha abbandonato da tempo (e per fortuna) la progressione esponenziale dei primi giorni. Ciò nonostante abbiamo ancora, purtroppo, un numero elevato di decessi giornalieri. Oggi probabilmente toccheremo i 16.000 decessi dall'inizio dell'epidemia. Sono numeri drammatici, ma che ci fanno comprendere la dimensione del problema e cosa sarebbe accaduto se non fossero state adottate le misure che siamo chiamati a rispettare. Il sacrificio richiesto è grande, la limitazione delle libertà individuali dura da digerire, la quotidianità stravolta psicologicamente impattante su un equilibrio già spesso reso precario dalle battaglie individuali di ognuno, nell'arena della vita ordinaria. Ma oggettivamente ci troviamo davanti ad un'emergenza nuova, o meglio, nuova per questi nostri tempi, così veloci, frenetici e interconnessi. Se vogliamo andare a ricercare qualcosa di simile, dobbiamo fare un salto all'indietro di cento anni, al 1919 e all'influenza spagnola. Non abbiamo quindi alternative, dobbiamo continuare a sopportare e a rispettare le limitazioni richieste, perché non c'è altra maniera di affrontare un virus che si è rivelato molto contagioso e letale. 
Utilizziamo il tempo a disposizione in più, che abbiamo, per riflettere anche sul perché si è arrivati a tutto questo. Sull'impatto che il nostro modello di vita e di sviluppo ha sugli ecosistemi e sulla biosfera. Il salto di specie del virus è avvenuto perché l'uomo ha invaso ecosistemi e ambienti selvaggi, un tempo separati e lontani dalle conseguenze e dagli impatti che le sue attività hanno oggi sugli stessi. Lo sfruttamento forsennato delle risorse limitate del Pianeta è funzionale soltanto alle esigenze di chi, in nome di un capitalismo che deve prevalere su ogni altra necessità o aspirazione dell'uomo, ci vuole far credere che sia possibile perseguire una crescita infinita, alla quale sia giusto sacrificare tutto il resto: il clima, gli ecosistemi, la biodiversità, la qualità della vita, la felicità, lo sviluppo spirituale dell'uomo, ecc. 
L'antropocene in cui viviamo, se non riflettiamo sulla necessità di cambiare rotta e di conciliare le giuste aspirazioni allo sviluppo e al progresso umano con la necessità di preservare intatti i servizi ecosistemici indispensabili alla vita (senza i quali la vita stessa si estingue), potrebbe essere l'ultima èra della storia con la presenza dell'uomo sul Pianeta, il quale può sopravvivere benissimo anche senza di noi (l'ha già fatto per miliardi di anni). A noi quindi la scelta, se vogliamo continuare a farne parte, come specie. L'economia non è l'unico idolo o l'unico aspetto della vita umana al quale dover sacrificare ogni altra aspirazione. 
Serve l'avvento di un nuovo umanesimo, una corrente di pensiero che sottolinei ora più che mai la necessità di mettere al centro di ogni prospettiva, i bisogni universali dell'uomo in ogni loro aspetto, per consentire alle società umane uno sviluppo più equilibrato, più diffuso, senza disuguaglianze che alimentano i conflitti, e che tenga conto delle esigenze di sostenibilità dettate dai limiti fisici di un Pianeta che abbiamo già abbondantemente oltrepassato, con le conseguenze inevitabili che abbiamo sotto gli occhi: cambiamento climatico galoppante, sesta estinzione di massa, diffusione di virus letali e guerre per la conquista delle risorse che, proprio in virtù dall'assolutismo del paradigma che ci ha portati fin qui, sono sempre più scarse e sempre meno in grado di continuare a sostenere la vita.




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