In questi giorni, complice anche il bel tempo e la primavera conclamata,
cresce nelle persone la voglia di riappropriarsi della quotidianità
perduta, di rioccupare le strade e riprendere quella vita sociale
sospesa a causa della pandemia in corso. Ieri qui a Roma, ma mi sembra
di capire anche altrove, si è assistito ad un sostanziale e liberatorio
rompete le righe spontaneo e collettivo, seppure (per fortuna) in
piccola scala. Sono tornati ad affollarsi i mercati rionali e le strade
del quartiere, soprattutto nelle ore centrali.
Purtroppo è ancora presto
per lasciarsi andare alla comprensibile voglia di recuperare il ritmo
autentico della vita che, per i più è tale soltanto se inserito nel
flusso dinamico dei rapporti sociali e collettivi. Per quanto possa
essere complicato il rispetto di regole restrittive che sembrano
protrarsi ad oltranza, ad oggi non esiste altro modo per fronteggiare il
pericolo di un virus che ha già mostrato, nella drammaticità dei suoi
numeri, tutta la sua contagiosità e letalità. Fin quando non vi saranno
vaccini o cure efficaci, non resta, per affrontare il problema, altro
modo che il distanziamento sociale con il relativo blocco delle attività
quotidiane. Se il virus fosse lasciato libero di fare il suo corso tra
la popolazione, senza ostacolo alcuno, andremmo rapidamente verso le
centinaia di migliaia di morti con grave rischio della tenuta stessa non
soltanto del sistema sanitario, ma della stessa società civile e della
democrazia. Purtroppo ad oggi non vi è alternativa possibile a questi
scenari e alle misure adottate per scongiurarli. Il percorso logico che
ha portato a dover attuare le misure attuali, non è smentibile dalla
possibile adozione di scenari alternativi. Chi nel resto del mondo ha
provato inizialmente a paventare la possibilità di una strategia
diversa, ha dovuto ripiegare rapidamente, e sotto l'influsso degli
stessi implacabili numeri, sulle medesime soluzioni che sono state
adottate qui (e, in misura molto più stringente, in Cina). I risultati
del resto si iniziano anche a vedere. I numeri dei nuovi contagi
continuano a crescere ma in maniera molto più lenta rispetto all'inizio.
La curva della crescita dei nuovi contagiati ha abbandonato da tempo (e
per fortuna) la progressione esponenziale dei primi giorni. Ciò
nonostante abbiamo ancora, purtroppo, un numero elevato di decessi
giornalieri. Oggi probabilmente toccheremo i 16.000 decessi dall'inizio
dell'epidemia. Sono numeri drammatici, ma che ci fanno comprendere la
dimensione del problema e cosa sarebbe accaduto se non fossero state
adottate le misure che siamo chiamati a rispettare. Il sacrificio
richiesto è grande, la limitazione delle libertà individuali dura da
digerire, la quotidianità stravolta psicologicamente impattante su un
equilibrio già spesso reso precario dalle battaglie individuali di
ognuno, nell'arena della vita ordinaria. Ma oggettivamente ci troviamo
davanti ad un'emergenza nuova, o meglio, nuova per questi nostri tempi,
così veloci, frenetici e interconnessi. Se vogliamo andare a ricercare
qualcosa di simile, dobbiamo fare un salto all'indietro di cento anni,
al 1919 e all'influenza spagnola. Non abbiamo quindi alternative,
dobbiamo continuare a sopportare e a rispettare le limitazioni
richieste, perché non c'è altra maniera di affrontare un virus che si è
rivelato molto contagioso e letale.
Utilizziamo il tempo a disposizione
in più, che abbiamo, per riflettere anche sul perché si è arrivati a
tutto questo. Sull'impatto che il nostro modello di vita e di sviluppo
ha sugli ecosistemi e sulla biosfera. Il salto di specie del virus è
avvenuto perché l'uomo ha invaso ecosistemi e ambienti selvaggi, un
tempo separati e lontani dalle conseguenze e dagli impatti che le sue
attività hanno oggi sugli stessi. Lo sfruttamento forsennato delle
risorse limitate del Pianeta è funzionale soltanto alle esigenze di chi,
in nome di un capitalismo che deve prevalere su ogni altra necessità o
aspirazione dell'uomo, ci vuole far credere che sia possibile perseguire
una crescita infinita, alla quale sia giusto sacrificare tutto il
resto: il clima, gli ecosistemi, la biodiversità, la qualità della vita,
la felicità, lo sviluppo spirituale dell'uomo, ecc.
L'antropocene in
cui viviamo, se non riflettiamo sulla necessità di cambiare rotta e di
conciliare le giuste aspirazioni allo sviluppo e al progresso umano con
la necessità di preservare intatti i servizi ecosistemici indispensabili
alla vita (senza i quali la vita stessa si estingue), potrebbe essere
l'ultima èra della storia con la presenza dell'uomo sul Pianeta, il
quale può sopravvivere benissimo anche senza di noi (l'ha già fatto per
miliardi di anni). A noi quindi la scelta, se vogliamo continuare a
farne parte, come specie. L'economia non è l'unico idolo o l'unico
aspetto della vita umana al quale dover sacrificare ogni altra
aspirazione.
Serve l'avvento di un nuovo umanesimo, una corrente di
pensiero che sottolinei ora più che mai la necessità di mettere al
centro di ogni prospettiva, i bisogni universali dell'uomo in ogni
loro aspetto, per consentire alle società umane uno sviluppo più
equilibrato, più diffuso, senza disuguaglianze che alimentano i
conflitti, e che tenga conto delle esigenze di sostenibilità dettate dai
limiti fisici di un Pianeta che abbiamo già abbondantemente
oltrepassato, con le conseguenze inevitabili che abbiamo sotto gli
occhi: cambiamento climatico galoppante, sesta estinzione di massa,
diffusione di virus letali e guerre per la conquista delle risorse che,
proprio in virtù dall'assolutismo del paradigma che ci ha portati fin
qui, sono sempre più scarse e sempre meno in grado di continuare a sostenere la vita.
Nessun commento:
Posta un commento